A TUTTE LE LETTERE DELL’ALFABETO
Carlo
Turati
“La
fantasia è quel posto dove ci piove dentro” (I. Calvino)
Pre-premessa
Molti
pensano che un autore comico non sappia niente del mondo del lavoro.
Probabilmente ciò accade perché molti pensano che l’autore comico
non sia un lavoro. Molti pensano che il mestiere dell’autore comico
consista nell’ascoltare quello che dice la gente, trascriverlo e
poi lucrare su diritti d’autore che non competono. Di più: molti
pensano –dimentichi della celere ’aria leoncavalliana- che sia
molto divertente scrivere cose divertenti. Ed è innegabile che lo
sia ma, altrettanto innegabilmente, è un lavoro in cui si suda,
bestemmia, spera, sacramenta, insulta, gioisce, dispera, resuscita,
guaisce, respira, marcisce, boccheggia, traccheggia e –ma solo
talora- percolla. Scrivere per gioco è un gioco, scrivere per lavoro
è un lavoro: scrivere ogni giorno per l’altrui risata è un
lavoraccio ma, siccome è il lavoraccio che mi sono scelto (o che ha
scelto me, non ho mai capito), non posso che amarlo ma, quando –alla
risposta: “scrivo per il cabaret”- mi dicono: “Ehi, deve essere
divertente”, rispondo –sempre-: “Sì è un bel LAVORO
!”. E sulla parola LAVORO, non transigo. Agur
Premessa
Uno
degli aspetti belli di scrivere è che le parole rimangono. Non dico
che sono scolpite nella pietra, ma almeno lasciano dietro di sé una
traccia. Alcune di queste parole sono scritte per se stessi, altre
per conto terzi, altre ancora per spiegare ai rami del proprio albero
maestro perché –in fondo- scrivere è una cosa bellissima. Quando
ci ho provato, l’unica volta che ci ho provato, mi sono accorto di
quanto amore e di quanta gratitudine si possa provare per tutte le
lettere dell’alfabeto. Questo, se me lo permettete, è stato il mio
modo di raccontarlo a dei bambini.
Scrivere
è una cosa bellissima. Essere pagati per farlo è strano, ma col
tempo ci si abitua. E’ un lavoro, si capisce, ma un lavoro che non
stanca mai. Anche se scrivere ‘stupidate’ (come le chiama
qualcuno) magari non è come salvare la vita a una persona o scoprire
come è nata la vita nell’universo, vi garantisco che ogni volta
che scrivo una ‘stupidata’ e poi il comico la fa su un palco o in
televisione e vedo la gente ridere, il mio cuore si riempie di gioia.
Ecco, se dovessi dire in cosa consiste il mio lavoro, la definizione
giusta è: dare alle persone un po’ di gioia.
Come
si comincia? Be’ ci sono tanti modi: si comincia per passatempo. Si
comincia leggendo molto, un libro dopo l’altro, con avidità. Si
comincia scrivendo le prime storielle, spesso copiando dai grandi
(che sono grandi perché si è bambini, ma sono anche Grandi con la G
maiuscola perché sono i maestri cui dobbiamo guardare con
ammirazione). Si comincia scoprendo che una risata è una buona
medicina non solo per gli altri che ridono quando ci ascoltano, ma
anche per noi stessi che facciamo ridere gli altri. E diventa una
piccola malattia, quel desiderio di vedere le persone sorridere per
le nostre ‘stupidate’.
Io
ho cominciato a dieci anni, scrivendo la mia prima paginetta di
‘stupidate’ durante le vacanze di Pasqua: una piccola storia
sulla vita di Gesù. A quei tempi avevo un bravo maestro. Gli diedi
la mia paginetta e lui: prima fece la faccia severa, perché era un
argomento serio e non ci si doveva scherzare; poi disse che comunque
era divertente e mi incoraggiò a continuare (anche se mi disse: “va
bene tutto, ma farlo morire di tetano è un po’ irrispettoso”).
Ovvio
che per far ridere la gente ci va di essere portati, ma –diciamo-
tutti quanti abbiamo dentro questo piccolo seme. Alcuni sono più
veloci di altri, più bravi, più spigliati; ma anche se vi sentite
più lenti, meno abili, più impacciati, non scoraggiatevi perché
avete un grosso talento comunque: siete bambini e avete il dono della
spontaneità. Perché sembra strano, lo so, ma per far ridere basta
essere spontanei.
Purtroppo,
rimanere un po’ bambini quando si diventa grandi non è facile. Vi
ricordate Peter Pan? Ecco, nella vita ci sarà sempre una Wendy che
vi tira per la giacchetta e vi dice: “Non ti sembra di essere un
po’ troppo grande per continuare a volare?”. Spesso ha ragione
lei, ma ogni tanto dovrete essere voi a tirarla per la camicia da
notte, ricordandole quanto volare sia bello. Mettiamola così: se
dovessi definire il mio lavoro in un secondo modo, potrei dire che
ogni tanto faccio quello che dovrebbe fare Peter Pan con Wendy.
Certo, non è utile come saper riparare un rubinetto e neppure
importante come dirigere una scuola ma siccome il mondo è pieno di
Wendy, qualcuno che faccia Peter Pan serve sempre un pochino.
Però
è un lavoro. O almeno così sembra pensarlo chi paga quelli come me.
E come tutti i mestieri ha i suoi lati belli e i suoi lati brutti. Il
più brutto di tutti è che ogni tanto la fantasia chiude il
rubinetto. Avete presente quando dovete scrivere un tema e non vi
vengono le idee? Ecco, pensate che nel mio lavoro io devo scrivere
continuamente dei temi e che, non solo non sempre ne escono dei bei
temi, ma ogni tanto non esce proprio niente di niente. Però, grazie
a Dio (anzi grazie a San Cassiano che degli scrittori è il
protettore), siccome è un mestiere, ci sono degli strumenti che uno
può usare per riaprire il rubinetto. Esattamente come la chiave
inglese per l’idraulico o lo stetoscopio per il dottore, anche gli
autori hanno una cassetta degli attrezzi che contiene tutti i
cacciaviti, tutte le brugole, tutti i bisturi che servono per tirar
fuori idee da una testolina pigra. In fondo, basta allenarsi a
pensare che con le parole si possono fare ragionamenti complicati, ma
ci si può anche giocare. L’italiano è una lingua fantastica (non
solo l’italiano, si capisce, ma io quello parlo), come una palletta
di creta che si può modellare, per cavarci fuori suoni nuovi e
divertenti, animali fantastici con caratteristiche mirabolanti, città
che volano, scannoni che aiutano a fare la pace, gatti con le
ciabatte, camaleonti daltonici, e così via.
Si
può far ridere anche solo aggiungendo una lettera. Per dire, se la
formula dell’acqua è H2O, come sarà quella del latte (la risposta
giusta è: Vacca2O). O addirittura con dei concetti un po’ più
complicati. Ad esempio, se vi dico: “questa settimana si gira con
le targhe alterne”, vi viene in mente qualcosa? A me viene in mente
che non è giusto: perché chi ha la targa alterna può girare e chi
non ce l’ha no? Insomma, se uno conosce le parole, metà del lavoro
è già fatto. Ma se è così semplice, dov’è il trucco? Il trucco
è elementare: bisogna imparare a giocare con loro. Le parole sono
animaletti molto sensibili cui piace essere coccolate, pastrugnate,
stiracchiate. Alla Lapponia piace da matti diventare ogni tanto
Lamponia, l’elefante adora essere scambiato per un efelante, una
casa può diventare una cassa. Nel mondo della fantasia esistono
bipenne, stemperini, staccapanni, discompiti (cioè un compito che
non bisogna fare a casa, ma che a casa è necessario distruggere),
microippopotami da tenere nell’acquario e trimucche con sei corna.
Insomma, per cominciare a giocare, basta prendere un vocabolario e
lasciarci piovere dentro: prima o poi, qualche goccia magica di
fantasia deve per forza scivolarne fuori. Avete delle domande?