(...)
Naturalmente,
come capita tutte le volte che si inizia a ragionare di qualcosa, il
termine ‘creativo’ è un po' vago. Può essere un aggettivo,
così come un sostantivo, un attributo della persona o una
professione. Fare il creativo, nel senso di essere pagati per essere
creativi, avendo vincoli, budget, scadenze, paletti non è essere
creativi nel senso di svegliarsi ogni tanto avere una bella idea e
poi tornare a dormire o a far altro per vivere. Fare il creativo
presuppone essere creativo mentre essere creativo non ha come
conseguenza fare il creativo.
Se
l’etimo corretta del sostantivo 'creativo' è nel verbo creare, il
creativo dovrebbe essere colui che crea, da Dio in poi, passando per
Madre Natura. Obiezione: tutti quanti prima o poi creiamo, quindi
siamo tutti creativi. Giusto! La vera distinzione tra creativo e non
creativo potrebbe, a questo punto, diventare che il non creativo crea
per hobby o per caso, mentre il creativo crea come routine
quotidiana: Moravia scriveva almeno due ore al giorno; Woody Allen si
alza alle 8, fa colazione, scrive 3 ore, esce a passeggiare, e via
così. Proust racconta, o almeno io me la ricordo così –letta ne
L’arte di correre di Makuraki-, si imponeva ogni mattina di sedere
davanti alla propria scrivania che avesse o non avesse idee, quasi ad
allenare il proprio corpo alla postura dello scrittore (l’immagine
dell’allenare i muscoli appartiene a Makuraki, ovviamente).
Cambiando professione, i copy pubblicitari hanno un tizio alle spalle
-che si chiama programmer- che gli alita sul collo se non si
presentano in ufficio. Insomma, se creare diventa un lavoro, non
basta la fantasia: occorrono metodo, sacrificio, organizzazione.
Passo
successivo: tra i sinonimi di creazione c'è sicuramente il dare alla
luce qualcosa. Dare alla luce qualcosa idealmente comporta un momento
di parto. E se creare è partorire, la principale differenza tra un
non creativo e un creativo è il numero di “figli”: il non
creativo partorisce un paio di volte nella vita, tra l'altro per
caso, quasi senza accorgersi di essere in dolce attesa, tra lo
stupore degli amici al bar. Il creativo, invece, è come la mamma
degli imbecilli, sempre incinto, una perenne puerpera che non perde
un attimo a farsi reingravidare, scientemente, fortemente volendolo,
inseguendo il seme della fantasia. Detto altrimenti, una vera e
propria baldracca delle idee.
Introdotta
questa analogia, restiamo sul pezzo: concettualmente, l’idea del
parto implica, non detta, l’immagine del travaglio. Il travaglio
implica, non detta, l’immagine della sofferenza. Visivamente,
l’immagine della sofferenza ci rimanda a Proust bloccato davanti
alla sua scrivania o agli spettatori bloccati davanti al clarinetto
di Woody Allen. Etimologicamente, invece, la radice di travaglio
unisce molte lingue neo-latine attorno al concetto di lavoro (travail
e trabajo, ad esempio). Dunque, creare implica, spesso trascurata, la
sofferenza del lavoro. Si dirà: giovine, potresti evitare di fresare
l'altrui scroto con questa mania di persecuzione e prendere atto che
fare il minatore nel Sulcis è altra cosa? Bon, prendo atto, ma
l’idea diffusa che a far fatica siano solo i camalli è francamente
riduttiva o quantomeno assimila il concetto di fatica al solo impegno
muscolare. Posto che anche solo a scrivere si fa fatica fisica (non è
spostare sacchi di sale antigelo, ma andatelo a spiegare a tunnel
carpale, schiena e chiappe), non può essere un caso che il cervello
consumi circa il 20% delle nostre risorse caloriche (tutti i
cervelli, anche quello di Cassano, anche il tuo), occupando uno
spazio piccino picciò. Ma, a rassicurare i minatori e i camalli e
tutti i loro avvocati, non sono qui a sostenere che quando si usa
l’emisfero sinistro ci si sfianca, mentre quando si attiva quello
destro ci si diverte. Sono qui a ricordare che il buon Newton,
parlando dell’invenzione, amava ricordare come essa consista in uno
scoraggiante 10% di intuizione (la poesia delle idee) e di un buon
90% di traspirazione (la miniera del pensiero, l'aratro delle
parole). E possiamo portare il tutto a 20 contro 80, allineandoci
alle leggi di Pareto, ma la sostanza non cambia: 10% orgasmo, 90%
gravidanza. E poi un parto che a volte fa male come tutti i nove mesi
di prima messi insieme.
Tutto
ciò premesso, lungi dal voler tentare una risposta scientifica ,in
queste pagine ci soffermeremo sulla “gravidanza” e, sia ben
chiaro, anche un poco sulle tecniche che possono rendere più agevole
un parto. Lo faremo limitando il campo ad una nicchia di creativi
particolare (almeno a mio parere): i comici e i loro fiancheggiatori,
consulenti, psicologi: gli autori. E lo faremo perché, sempre a mio
parere, la comicità non solo è il frutto di una gravidanza
particolare, ma possiede anche parametri di giudizio degli esiti del
parto che sono tra i più rigidi e complessi (ma anche onesti) da
soddisfare (le risate). La Rupe Tarpea da cui vengono scaraventate le
idee che non funzionano, fa parte del lavoro dei comici: se non si
conosce la Rupe Tarpea non si può dire di essere comici e la coda
attorno a quella roccia è sempre molto affollata. Anzi, sono più le
idee che giacciono morte ai piedi della Rupe di quelle che vedrete su
un palco, uno schermo o un pezzo di carta. Non per cattiveria, ma
perché la risata è severa più della lacrima, è collettivamente
soggettiva, è one shot, è figlia della sorpresa e,
soprattutto, è onesta. Di seguito non sosterremo che tutto si può
ridurre a regola, tecnica o standard, semplicemente cercheremo di
trovare un filo e una cassetta degli attrezzi che renda meno
pericolosa la vita nei pressi della Rupe.
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