l'arte di fingere un talento che non c'è (2)


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Naturalmente, come capita tutte le volte che si inizia a ragionare di qualcosa, il termine ‘creativo’ è un po' vago. Può essere un aggettivo, così come un sostantivo, un attributo della persona o una professione. Fare il creativo, nel senso di essere pagati per essere creativi, avendo vincoli, budget, scadenze, paletti non è essere creativi nel senso di svegliarsi ogni tanto avere una bella idea e poi tornare a dormire o a far altro per vivere. Fare il creativo presuppone essere creativo mentre essere creativo non ha come conseguenza fare il creativo.

Se l’etimo corretta del sostantivo 'creativo' è nel verbo creare, il creativo dovrebbe essere colui che crea, da Dio in poi, passando per Madre Natura. Obiezione: tutti quanti prima o poi creiamo, quindi siamo tutti creativi. Giusto! La vera distinzione tra creativo e non creativo potrebbe, a questo punto, diventare che il non creativo crea per hobby o per caso, mentre il creativo crea come routine quotidiana: Moravia scriveva almeno due ore al giorno; Woody Allen si alza alle 8, fa colazione, scrive 3 ore, esce a passeggiare, e via così. Proust racconta, o almeno io me la ricordo così –letta ne L’arte di correre di Makuraki-, si imponeva ogni mattina di sedere davanti alla propria scrivania che avesse o non avesse idee, quasi ad allenare il proprio corpo alla postura dello scrittore (l’immagine dell’allenare i muscoli appartiene a Makuraki, ovviamente). Cambiando professione, i copy pubblicitari hanno un tizio alle spalle -che si chiama programmer- che gli alita sul collo se non si presentano in ufficio. Insomma, se creare diventa un lavoro, non basta la fantasia: occorrono metodo, sacrificio, organizzazione.

Passo successivo: tra i sinonimi di creazione c'è sicuramente il dare alla luce qualcosa. Dare alla luce qualcosa idealmente comporta un momento di parto. E se creare è partorire, la principale differenza tra un non creativo e un creativo è il numero di “figli”: il non creativo partorisce un paio di volte nella vita, tra l'altro per caso, quasi senza accorgersi di essere in dolce attesa, tra lo stupore degli amici al bar. Il creativo, invece, è come la mamma degli imbecilli, sempre incinto, una perenne puerpera che non perde un attimo a farsi reingravidare, scientemente, fortemente volendolo, inseguendo il seme della fantasia. Detto altrimenti, una vera e propria baldracca delle idee.

Introdotta questa analogia, restiamo sul pezzo: concettualmente, l’idea del parto implica, non detta, l’immagine del travaglio. Il travaglio implica, non detta, l’immagine della sofferenza. Visivamente, l’immagine della sofferenza ci rimanda a Proust bloccato davanti alla sua scrivania o agli spettatori bloccati davanti al clarinetto di Woody Allen. Etimologicamente, invece, la radice di travaglio unisce molte lingue neo-latine attorno al concetto di lavoro (travail e trabajo, ad esempio). Dunque, creare implica, spesso trascurata, la sofferenza del lavoro. Si dirà: giovine, potresti evitare di fresare l'altrui scroto con questa mania di persecuzione e prendere atto che fare il minatore nel Sulcis è altra cosa? Bon, prendo atto, ma l’idea diffusa che a far fatica siano solo i camalli è francamente riduttiva o quantomeno assimila il concetto di fatica al solo impegno muscolare. Posto che anche solo a scrivere si fa fatica fisica (non è spostare sacchi di sale antigelo, ma andatelo a spiegare a tunnel carpale, schiena e chiappe), non può essere un caso che il cervello consumi circa il 20% delle nostre risorse caloriche (tutti i cervelli, anche quello di Cassano, anche il tuo), occupando uno spazio piccino picciò. Ma, a rassicurare i minatori e i camalli e tutti i loro avvocati, non sono qui a sostenere che quando si usa l’emisfero sinistro ci si sfianca, mentre quando si attiva quello destro ci si diverte. Sono qui a ricordare che il buon Newton, parlando dell’invenzione, amava ricordare come essa consista in uno scoraggiante 10% di intuizione (la poesia delle idee) e di un buon 90% di traspirazione (la miniera del pensiero, l'aratro delle parole). E possiamo portare il tutto a 20 contro 80, allineandoci alle leggi di Pareto, ma la sostanza non cambia: 10% orgasmo, 90% gravidanza. E poi un parto che a volte fa male come tutti i nove mesi di prima messi insieme.

Tutto ciò premesso, lungi dal voler tentare una risposta scientifica ,in queste pagine ci soffermeremo sulla “gravidanza” e, sia ben chiaro, anche un poco sulle tecniche che possono rendere più agevole un parto. Lo faremo limitando il campo ad una nicchia di creativi particolare (almeno a mio parere): i comici e i loro fiancheggiatori, consulenti, psicologi: gli autori. E lo faremo perché, sempre a mio parere, la comicità non solo è il frutto di una gravidanza particolare, ma possiede anche parametri di giudizio degli esiti del parto che sono tra i più rigidi e complessi (ma anche onesti) da soddisfare (le risate). La Rupe Tarpea da cui vengono scaraventate le idee che non funzionano, fa parte del lavoro dei comici: se non si conosce la Rupe Tarpea non si può dire di essere comici e la coda attorno a quella roccia è sempre molto affollata. Anzi, sono più le idee che giacciono morte ai piedi della Rupe di quelle che vedrete su un palco, uno schermo o un pezzo di carta. Non per cattiveria, ma perché la risata è severa più della lacrima, è collettivamente soggettiva, è one shot, è figlia della sorpresa e, soprattutto, è onesta. Di seguito non sosterremo che tutto si può ridurre a regola, tecnica o standard, semplicemente cercheremo di trovare un filo e una cassetta degli attrezzi che renda meno pericolosa la vita nei pressi della Rupe. 

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