La mano e il sasso che l'ha tirata

E’ bello, commovente, quasi magico che il giorno in cui Genova si si ferma per ricordare Don Gallo, Palermo si riempia a rendere beato Padre Puglisi. E’ bello e commovente quel mix di bandiere, cori e bandiere che hanno fatto delle strade verso il Carmine un piccolo Marassi. E sono anche così onesti i fischi alla Chiesa in veste viola e superba: non si può essere nella stessa vita caruggio e tiara, mitria e camallo, senza nome e CEI. Nella vita si sceglie: chi ha scelto Siri ha scelto il rosso porpora del Concistoro, chi ha scelto il sigaro ha optato per la strada e il suo popolo. In quello stadio simbolico di memoria e diversità, fanno scalpore gli estremi, i trans, gli ultimi, i tossicodipendenti, gli sbandati. Ma la strada attorno è anche tutto il resto: si può non essere primi anche senza essere ultimi; sfigati anche senza essere ‘maudit’, trasgressivi senza violare le leggi di natura. Noi, la maggioranza di noi, siamo quella roba lì: né ultimi, né primi e con una tolleranza spesso sovrumana verso l’ipocrisia. A volte fingiamo per sopravvivere, ma a volte riusciamo a capire che fingere è il peggiore dei peccati possibili: tirare il sasso e spacciarsi per monchi. E oggi non è tanto Bagnasco il monco da mondare coi fischi. E’ dove i fischi non ci sono stati che si è seduta l’ipocrisia. Accanto ad Alfano o Simona Vicari che poche settimane fa recavano solidarietà a un perseguitato di mafia nel Tribunale di Milano. O a Schifani, Miccichè, forse persino Grasso. Non ha avuto quell’impudenza Totò Cuffaro o, forse, più semplicemente ha solo ricordato le parole che un suo maestro gli ha impresso nel cuore e nella mente: Puglisi, in fondo, “se l’era cercata”

Tarasso per Kotiomkin

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